lunedì 18 novembre 2019

Rai, un omaggio a De André vuoto che fa pentire di averlo visto

Lo so, non avrei dovuto seguire Una Storia da Cantare dedicata a Fabrizio De André; e me l’ero pure imposto (Rai1, sabato, ore 21,30). Sapevo che sarebbe finita così, dovendo il giorno dopo stendere il mio pentimento. Sapevo anche che non avrei trovato le parole per descrivere tutto l’amore di Dori Ghezzi (e l’amore che noi abbiamo per lei), ma di fronte a un programma privo di scrittura, incapace di imbastire un discorso sensato su De André, alieno da ogni profondità, pieno di «artisti» preoccupati di mettere il proprio io davanti alla canzone che stavano per interpretare (mediamente male), più volte ho avuto la tentazione di cambiare canale. 

Mi stupisce che Ernesto Assante e Gino Castaldo abbiano messo la loro firma a sugello di tanto strazio; che la serata sia stata condotta da Enrico Ruggeri che, a parte il calo di voce e l’inopportunità dell’inedito, non sa assolutamente condurre, non è il suo mestiere (si deve alla grande Ornella Vanoni l’unico momento di brio); che si facciano ancora recitare i testi di De André da attori, con enfasi smodata.

Il codice dell’opinione pubblica infligge l’esagerazione come prima pena (il discorso vale anche per Ranieri e Morgan). A salvare la serata ci sono stati solo gli interventi di Dori Ghezzi, di Anastasio, che ha interpretato La guerra di Piero dal punto di vista del soccombente, e del grandissimo Mauro Pagani con Crêuza de mä. De Andrè era innanzitutto la sua voce, una voce che si riconosceva all’istante come quella, antichissima e vivificante, di un troubadour. 

Si potrebbero anche trovare tre o quattro aggettivi per descriverla ma sarebbe del tutto inutile perché quel timbro è così unico, inconfondibile, inimitabile da apparire necessario. E la necessità è qualcosa che non appartiene soltanto al mondo della musica: la sua voce non era mai estranea a ciò di cui parlava. Purtroppo ho assistito a un programma sguarnito di ogni principio di vita.


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